martedì 26 ottobre 2010

Classe (per nulla) dirigente

Rivolte urbane, guerriglie notturne, sindacialla mercé delle piazze. Di nuovo la Campania. Di nuovo l’immondizia. Governo, Regione, Napoli, si palleggiano le colpe e magari è vero che le responsabilità sono di tutti. Ma resta che la Campania non si sa tirare fuori da una situazione che, come ha scritto accoratamente Giuseppe Galasso su questo giornale (il 24 ottobre) umilia l’Italia intera. Il vero dramma del Mezzogiorno non consiste nei gravissimi problemi che lo attanagliano. Consiste nel fatto che le sue classi dirigenti (politici, imprenditori, professionisti, intellettuali) siano incapaci di cercare soluzioni e rimedi. Nel politichese di alcuni anni fa si sarebbero dette prive di «progettualità», fallite. Non perdono un colpo quando si tratta di accusare Roma, lo Stato, di avere «abbandonato il Sud»: un’espressione che testimonia di uno stato di minorità, psicologica e culturale (sono i minori quelli che non si possono abbandonare). Ma ne perdono tanti quando si tratta di lavorare per cambiare le cose. Nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia constatiamo che l’unità scricchiola, che si sentono rumori sinistri. Se non ci saranno novità la democrazia, così come funziona nel Mezzogiorno, e l’unità del Paese potrebbero presto entrare in rotta di collisione. L’esperienza storica ci dice che, spesso, la democrazia è un’ottima cura per molti mali: col tempo, fa fiorire una società civile basata sulla cooperazione e la fiducia, fa crescere il capitale umano e sociale, promuove lo sviluppo. Ma non ovunque. Di certo, sessant’anni di democrazia non hanno portato quei doni al Mezzogiorno. La democrazia è servita al Sud, più che per curarsi degli antichi vizi, per accrescere il proprio potere contrattuale nei confronti dello Stato e delle regioni più sviluppate. Senza il Sud non si vincono le elezioni nazionali e questo dà a chi difende il Mezzogiorno così come è oggi una fondamentale arma di ricatto nei confronti di qualunque coalizione politica nazionale, di destra o di sinistra che sia. Le voglio proprio vedere, ad esempio, certe Regioni del Sud (quelle con i peggiori disastri nella Sanità) accettare senza fiatare il passaggio dalla spesa storica ai costi standard come prevede il progetto del federalismo fiscale, ben sapendo che ciò comporterebbe una drastica contrazione di risorse e l’obbligo di porre fine a sprechi e a parassitismo. È in questo senso che unità del Paese e democrazia nel Mezzogiorno rischiano di diventare incompatibili. Non si può avere una questione meridionale perenne: alla lunga, si finisce per disfare ciò che il Risorgimento ha creato. L’aspetto più grave non sta nella protervia dei maneggioni ma nei pensieri e nelle parole di tante persone per bene. Chiunque scriva di Mezzogiorno sa di cosa parlo. Quando si toccano questi argomenti si ricevono tanti messaggi dal Sud, spesso di professionisti o di insegnanti. Persone istruite, che fanno opinione nei rispettivi ambienti. Persone capaci di fare l’apologia del regno borbonico, di trattare Cavour e Garibaldi come criminali di guerra, di liquidare la storia dell’Italia unita come il frutto di un’odiosa colonizzazione. Questa forma di autoassoluzione, condita di leggende nere sull’unità d’Italia è, da sempre, la maledizione del Sud. Se non se ne libererà non cambierà mai nulla. E dei «doni» della democrazia resterà solo una capacità di ricatto sempre meno sopportata dal resto del Paese. (di Angelo Panebianco da il Corriere della Sera)

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